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I cambiamenti nell’arte della guerra e i Lanzichenecchi

Durante tutto il corso del medioevo le battaglie sono dominate dal cavaliere feudale, pesantemente armato e protetto, che va in guerra accompagnato da un seguito di scudieri, paggi e garzoni, che hanno il compito di assisterlo in combattimento, hanno cura delle armi o si occupano della raccolta e del trasporto dei viveri. Le caratteristiche degli eserciti medievali si riflettono sulla condotta della guerra. La difensiva domina sulla offensiva, poiché gli eserciti feudali non dispongono di truppe e mezzi sufficienti per assicurare uno stretto blocco attorno ad una città assediata o per prenderla d’assalto. Agli assedianti non resta che cercare di ottenerne la capitolazione tramite defezioni o tradimenti degli assediati. Non ci sono vere e proprie battaglie campali. Il codice cavalleresco impone che solo il cavaliere possa combattere contro il cavaliere. La concezione del combattimento inteso come duello individuale è così profondamente radicala che anche una battaglia campale viene considerata alla stregua di una grande sfida, tanto che gli esercirti spesso si accordano sul luogo e sul giorno dello scontro.

Verso la fine del secolo XV la cavalleria pesante, malgrado si stia riducendo di numero, è ritenuta ancora l’arma più importante e l’unica in grado di compiere l’azione risolutiva della battaglia, ma ai fianchi dei cavalieri coperti di ferro comincia a svilupparsi una fanteria specializzata, nella quale sono sempre più presenti tiratori dotati di balestre e armi da fuoco.

Due novità fanno perdere rilevanza alla cavalleria: la progressiva introduzione delle armi da fuoco portatili, efficaci, leggere e meno costose e la nuova tattica della fanteria, introdotta dagli svizzeri, che fa leva sull’addestramento unitario e sull’uso di aste lunghe (picche e alabarde).

Per far fronte alle nuove armi da fuoco il cavaliere si deve corazzare sempre più pesantemente e con lui anche il destriero, riducendo così la velocità d’azione e limitando l’azione stessa solamente a manovre aggiranti o di circoscritto sfondamento delle linee avversarie. Ma i fanti, per mezzo dell’uncino delle alabarde, possono facilmente disarcionare il cavaliere.

Fino alla fine del Quattrocento l’artiglieria è impiegata principalmente nelle operazioni d’assedio, per battere le mura delle città o delle fortezze. Il suo intervento in campo aperto è ancora ridotto. È un’artiglieria pesante, per muovere la quale occorre un grande numero di animali da tiro costituiti soprattutto da buoi. È lenta e poco manovrabile, una volta piazzata non può più essere spostata. Manca quindi la caratteristica peculiare di una vera artiglieria campale, cioè la manovrabilità.

Le guerre italiane modificano tale situazione, diffondendo tra gli eserciti mezzi di trasporto più maneggevoli e veloci. L’esempio viene dalla Francia, dove, già prima della discesa di Carlo VIII in Italia, i cannoni sono stati montati su affusti dotati di ruote e tirati da cavalli. La conseguenza è un notevole miglioramento nella possibilità di manovrare i pezzi sul campo di battaglia. Nasce allora la distinzione tra artiglieria campale e d’assedio. Quest’ultima comprende i pezzi più pesanti come la bombarda, i mortai e le colubrine più grandi, quella campale è costituita da falconetti, colubrine più piccole e spingarde. La superiorità della Francia nell’artiglieria conta poco per l’esito delle battaglie campali, perché anche i migliori cannoni funzionano ancora troppo lentamente per intervenire in modo decisivo. L’artiglieria conta molto invece nella guerra d’assedio, dove l’utile tuttavia non è uguale da ambedue le parti, in quanto l’assalitore ha un vantaggio ben più importante del difensore[1].

L’aspetto fondamentale e caratterizzante dell’arte militare dei primi anni del Cinquecento è tuttavia il risorgere della prevalenza della fanteria nei confronti della cavalleria. Il primo reparto di cavalleria ad essere superato è quello pesante; per alcuni anni aumenta il valore della cavalleria leggera, tra cui troviamo gli “stradioti” veneziano-albanesi.

I governi e le diplomazie regolano l’arruolamento dei mercenari con la concessione delle licenze. Quando un “signore della guerra”, come il re di Francia o l’imperatore, ha bisogno di soldati per risolvere con la forza una controversia o portare a compimento una conquista, affida l’incarico dell’arruolamento degli uomini necessari ad un “imprenditore”, cioè a uno uomo d’armi esperto che riceve l’autorizzazione ad assoldare truppe in suo nome, reclutate di solito già inquadrate in unità militari; gli accordi elencano le condizioni e la durata del servizio, il soldo e l’armamento dei soldati, ai quali è sempre assicurato il diritto al saccheggio. “La paga base di quattro fiorini al mese rimane costante per tutto il secolo XVI. Con questo soldo il lanzichenecco era posto a un livello di paga doppio di quello di un lavorante agricolo e molto superiore a quello di un garzone artigiano” [2].

I fanti svizzeri sono i più ricercati sul mercato internazionale e la corona francese, finanziariamente forte, se ne assicura il servizio. Per far fronte alle fanterie svizzere, l’imperatore Massimiliano ricorre ai corpi dei lanzichenecchi. Il termine deriva dal tedesco Landsknecht (Land, campagna, patria; Knecht, servitore). Si tratta di fanti che l’imperatore

raccoglie nel proprio paese. Il lanzichenecco non ha il concetto di nazione, ma possiede molto forte quello di patria, che non è tuttavia l’Impero, ma il luogo in cui è nato, la signoria, il territorio di cui è originario.

All’atto del reclutamento, fatto da un capitano dell’imprenditore, che passa nei paesi e nelle città accompagnato da un pifferaio e un tamburino, il mercenario riceve il denaro necessario per recarsi alla località di raccolta, dove avviene l’ammissione all’esercito lanzichenecco attraverso la rassegna: viene letta la lettera di impegno, sono presentati i comandanti e i capitani, è definito il soldo ed è prestato il giuramento. Sulla piazza della rassegna ha luogo un atto giuridicamente impegnativo, raffigurato col passaggio della recluta sotto un giogo di lance, atto che introduce in una comunità con un diritto proprio, usanze proprie, una propria coscienza di sé e una organizzazione gerarchica e democratica.

La truppa (Haufe) è divisa in formazioni composte da drappelli (Fähnlein), che possono contare dai 300 ai 500 uomini; il drappello è comandato da un capitano, di solito un nobile, che normalmente promuove l’arruolamento dei soldati nelle sue terre. La partecipazione alle decisioni si manifesta soprattutto nell’istituto del Gemein, ossia dell’assemblea generale di tutti i fanti di un’unità. L’assemblea dell’esercito lanzichenecco elegge i rappresentanti dei propri interessi, ascolta e giura la lettera d’impegno, manifesta il suo malumore quando certi articoli non incontrano la sua approvazione, reclama le paghe arretrate o i compensi supplementari (come ad esempio il “soldo per l’assalto”).

“Vita da lanzichenecco, vita allegra, in taverna di notte e dì …”, recita una ballata tedesca contemporanea. L’allegria che distingue questi soldati e i saccheggi compiuti durante le loro spedizioni o dopo la vittoria si sono impressi nell’immaginario popolare trasmettendo solo una faccia della realtà.

I lanzichenecchi costituiscono certo uno spettacolo animato e variopinto, ma la loro vita è molto dura. In prevalenza provengono dalle terre sovrappopolate di Svevia, Baviera, Vorarlberg e Tirolo. È accertato anche l’arruolamento di mercenari trentini per la presenza di capitani delle famiglie Lodron, Castellalto, d’Arco e Trapp. Nella tarda estate del 1526, nei villaggi intorno a Trento, staziona per settimane un numero sempre crescente di fanti, inviati colà dai reclutatori del Frundsberg, ma che il loro colonnello non poteva far passare in rassegna poiché mancava ancora il denaro per pagare loro il soldo[3].

Sono in maggioranza figli di contadini e di artigiani, spinti dalla fame e dalla disperazione, ma ci sono anche rappresentanti della borghesia e della piccola nobiltà che si arruolano soprattutto per sete di avventura o di facile guadagno, a volte spinti dalla necessità di sfuggire alla crudele giustizia del tempo. E per la quasi totalità sono cristiani praticanti, cattolici o protestanti; tra i fanti presenti al Sacco di Roma del 1527 i protestanti sono un gruppo assai limitato.

I lanzichenecchi copiano dagli svizzeri le armi, la tattica e soprattutto l’ordinamento compatto, ma agile e manovriero, tipico delle antiche legioni imperiali romane e della testuggine macedone.

I fanti usano l’alabarda e la picca (detta anche asta o lancia lunga). La prima ha un manico di legno lungo tra i 120 e 180 cm., sulla cui sommità è infissa una punta tagliente da entrambi i lati; nel punto di inserzione con l’asta sono montate una corta scure da una parte e una o più punte ad uncino dall’altra; può essere usata per perforare, tagliare, fratturare, agganciare e strappare; è impiegata sia nel combattimento tra fanti che tra fanti e cavalieri, che vengono strappati dai loro destrieri. La picca invece ha un’asta di legno (preferibilmente frassino) della lunghezza variabile tra i 4 e i 5 metri, terminante in una punta metallica di varie forme ed è priva della scure. Poiché il modo di impugnare la picca “alla tedesca”, cioè dal fondo, rende faticoso il mantenerla a lungo in posizione orizzontale, i lanzichenecchi la abbassano solo immediatamente prima di entrare in contatto col nemico. L’efficacia delle formazioni sta nella disposizione “a quadrato”, con i fanti strettamente ammassati, che inclinano contemporaneamente le loro armi verso l’esterno, presentando al nemico una siepe impenetrabile di punte ferrate.

Fin dall’inizio, nell’esercito dei lanzichenecchi ci sono anche tiratori, armati prima di balestra, poi di archibugio e di moschetto. Sono inizialmente una minoranza, poi crescono durante il Cinquecento con il perfezionarsi delle armi da fuoco. Il loro compito è di ingaggiare il combattimento agendo isolatamente, fuori dallo schieramento dei quadrati; in seguito archibugieri e moschettieri vengono raggruppati in reparti, detti “maniche”, in corrispondenza degli angoli dei quadrati di fanteria; caricano e sparano a righe alternate, per mantenere un fuoco continuo; se minacciati dalla cavalleria, trovano riparo sotto le picche del quadrato. Georg Frundsberg, riconoscendo che il futuro stava nelle armi da fuoco, è il primo ad aumentare il numero dei moschettieri nelle sue formazioni.

Infine, il lanzichenecco è inseparabile dalla sua “arma corta”. È l’arma più naturale da impiegare in battaglia, quando le lance e le alabarde non servono più, perché lo scontro tra gli schieramenti si è trasformato nel corpo a corpo. Ma è anche l’arma più adatta alla difesa personale, nell’accampamento o all’osteria, quando le baruffe si trasformano in zuffe armate. Inizialmente si usano spade leggere, ma le speciali esigenze di una fanteria armata di lance lunghe rendono presto abituale una spada particolare dei lanzichenecchi, il Katzbalger, dotata di elsa che ripara la mano a forma di S, e la lama corta, larga, che termina ad angolo ottuso. Il fante la porta quasi orizzontale alla cintura o di fianco, oppure dietro la schiena, in modo che non sia d’ostacolo nel combattere e nel camminare. Soltanto ad alcuni uomini di grande valore e prestanza fisica è affidata una grande e pesante spada a due mani, impiegata per “falciare” con fendenti le picche e le alabarde del nemico, aprendo un varco nel suo schieramento.

L’abbigliamento dei lanzichenecchi è vario e variopinto, non è mai uniforme; si vestono di proprio genio, spesso anche in modo disordinato perché recuperano i pezzi di vestiario e le parti di corazza che hanno tolto al nemico. Per biancheria il lanzichenecco porta una camicia di lino, di solito a forma di sacco aperto, arricciato superiormente. Sopra i calzoni di lana o pelle, aderenti quasi come calzamaglie, indossa brache cortissime, lunghe al massimo fino al ginocchio e contraddistinte da ampi spacchi, sbuffi e fiocchi. La giacca è corta, quasi sempre in cuoio tinto in vari colori e imbottito di crine di cavallo o feltro pressato a protezione dei colpi di fendente. Una protezione più efficace è costituita dalla “panziera”. A volte la parte superiore della gamba è difesa da lamine metalliche sovrapposte.

Il capo è protetto da un cappuccio o da un cappello di pesante feltro rinforzato con strisce metalliche all’interno. Alcuni cappelli sono dotati di ricco piumaggio che contribuisce con i variopinti colori dei vestiti a spaventare il nemico. Nel corso del Cinquecento il cappello con le piume assume forme e dimensioni stravaganti, addirittura gigantesche, e diventa il copricapo tipico dei lanzichenecchi. Ne usciva uno spettacolo variopinto e animato: “per quanto riguarda il loro modo di presentarsi, furono indubbiamente la truppa più singolare di tutta la storia”  e “foggiarono una cultura” (Baumann)[4].

I drappelli dei lanzi sono accompagnati da soldati col tamburo, che può essere di legno o di metallo e viene colpito sulla pelle superiore con due bacchette. Un gran numero di carriaggi segue le truppe in marcia, insieme con donne, vivandiere, mercanti, ragazzi, avventurieri.

La nascita dei lanzichenecchi si deve all’imperatore Massimiliano, che per affrontare le truppe fiamminghe armate di picche, si vede costretto a formare una fanteria di tipo analogo. Il più celebre “imprenditore” dei lanzichenecchi è Georg Frundsberg (1475-1526), signore di Mindelheim, che nel 1519 sposa la contessa Anna Lodron, figlia di Paride di Castel Lodrone. Massimiliano lo definisce “padre dei lanzichenecchi”. Ad alcune sue imprese si è già accennato più sopra, in seguito ne vedremo altre.

Il Frundsberg combatte per la prima volta in Italia nel 1495, al tempo della discesa del re francese Carlo VIII. Nel 1499 affronta prima gli svizzeri, poi viene mandato ad assistere Ludovico Sforza, duca di Milano, contro i francesi. Il contatto con gli svizzeri lo convince che è finita l’epoca dei cavalieri corazzati; il punto chiave dell’esercito sta ora in un’efficiente fanteria armata di picche e alabarde. Nei primi anni del Cinquecento soggiorna ripetutamente a Trento, dove negli anni 1486-93 è vescovo suo fratello Udalrico.

Nel 1508, per ordine dell’imperatore, raduna a Trento un esercito di 5.000 mercenari per combattere, assieme agli alleati della Lega di Cambrai, la Serenissima, concorrendo a espugnare Padova, Vicenza e Verona. Nel 1511 partecipa all’espugnazione di Bologna. Poi, con 1.800 lanzichenecchi, costringe alla resa l’inespugnabile castello di Podestagno, nella zona di Cortina d’Ampezzo, e occupa alcune roccaforti della Valle dell’Adige. Nel 1513 salva l’esercito imperiale, completamente circondato dai veneziani; in questa occasione sono uccisi 26 capitani nemici e circa 5.000 soldati di fanteria. L’anno seguente, al comando di 4.000 lanzi, combatte agli ordini di Marco Antonio Colonna per difendere Verona fino a tutto il 1516. In ricompensa dei servizi prestati, Massimiliano gli conferisce la carica di capitano supremo della contea del Tirolo[5].

Seguono altre tre sue discese in Italia; la prima nel gennaio del 1522, con 6.000 uomini passati in rassegna a Glorenza, in Val Venosta, e condotto poi attraverso l’innevato Passo dello Stelvio; la seconda lungo la Valle dell’Adige a fine dicembre del 1524 per soccorrere gli imperiali assediati a Pavia; infine l’ultima seguendo la via delle Giudicarie nell’autunno del 1526 per affrontare l’esercito francese in Lombardia.

Gianni Poletti
[1] Gli accenni al cambiamento delle tattiche militari e delle armi possono essere integrati da una consultazione di E. Füter, Storia del sistema degli stati europei dal 1492 al 1559, traduzione italiana di Biagio Marin, seconda edizione, Firenze 1969, pp. 15-37. Per un’efficace ed esauriente sintesi cfr. L. Casali – M. Galandra, La battaglia di Pavia, Pavia 1984, pp. 11-24.

[2] R. Baumann, Landsknechte, Monaco 1994, traduzione italiana I Lanzichenecchi. La loro storia e cultura dal tardo Medioevo alla guerra dei Trent’anni, Torino 1996, p. 102. A questo testo si rimanda per più complete notizie sulla storia e la cultura dei lanzichenecchi.

[3] Baumann R., Landsknechte, p. 83.

[4] Dell’immagine dei primi lanzichenecchi ci parlano xilografie e incisioni, quelle di Albrecht Dürer, ad esempio, ma anche di Hans Burgkmair, Hans Schäuffelein, Albrecht Altdorfer. Per il Trentino si segnalano i dipinti di palazzo Lodron di Via Calepina e del Fogolino in Castel Vecchio a Trento e l’affresco absidale della chiesa di s. Michele a Darzo.

[5] Per Georg Frundsberg si vedano R. Baumann, Georg von Frundsberg – Vater der Landsknechte – Feldhauptmann von Tirol, Monaco 1991, oltre a A. Reissner, Historia der Herren Georg und Kaspar von Frundsberg, pubblicato nel 1569, seconda edizione a cura di Karl Schottenloher, Lipisia 1910/1914, e a F. Zoepfl, Geschichte der Stadt Mindelheim in Schwaben, seconda edizione, Regensburg 1995.